ippogrifo

Giovanni Pascoli, I due orfani

Analisi del testo poetico – TIPOLOGIA A

«For oft, when on my couch I lie / In vacant or in pensive mood, / They flash upon that inward eye / Which is the bliss of solitude; / And then my heart with pleasure fills, / And dances with the daffodils».

Poiché spesso, quando mi sdraio sul mio divano in uno stato d’animo ozioso e pensieroso, essi appaiono davanti a quell’occhio interiore che è la beatitudine della solitudine; e allora il mio cuore si riempie di piacere, e danza con i narcisi.

Il poeta romantico inglese William Wordsworth (1770-1850), autore della lirica The Daffodils (“I narcisi”), aveva intuito che l’autentico spirito romantico, che giace sopito sul fondo dell’animo umano, parla la lingua della memoria. Parole che divengono ricordi, ricordi che si fanno suoni, suoni che sono volti d’infanzia. Volti che abitano il silenzio della solitudine. L’uomo moderno è un uomo solo, perché morto tra i vivi e vivo tra i morti. In ogni silenzio scorge lineamenti familiari, intravede le ombre del passato. Allora, a volte sorride, a volte piange. A volte teme, a volte spera. Ed è, forse, meno solo.

Profondo interprete di questo sentimento fu Giovanni Pascoli (1855-1912), animo inquieto la cui poesia, luttuosa di tristi vicende familiari e dalla sensibilità tutta decadente, ci ha lasciato alcune tra le più sincere testimonianze del valore della memoria. Proprio sul tema della memoria è imperniato il poemetto I due orfani, pubblicato per la prima volta nella seconda edizione della raccolta Poemetti (1900) e poi inserito tra i Primi poemetti del 1904. Il titolo stesso, è intrinsecamente legato alla morte e al ricordo, binomio centrale nella poetica pascoliana, nonché significativo di quel rapporto torbidamente viscerale del poeta di San Mauro col nido familiare, inteso come ente soggettivamente atemporale e trascendente la realtà materiale e biologica. Il culto della famiglia implica inscindibilmente il culto dei morti, presenze evanescenti che popolano quei coni d’ombra sempre più vistosi che l’oramai sconfitta cultura positivistica lascia dietro di sé nella sua mesta e ineluttabile ritirata. Laddove la ragione sonnecchia, le case brulicano di anime che abbandonano i loro sepolcri eterni per tornare dai loro cari ancora in vita. Tuttavia, in questo moderno ritorno al manismo tipico della cultura latina arcaica non v’è più nulla della pragmatica superstiziosità antica, né tantomeno alcun legame col profondo spiritualismo del Cristianesimo originario. Resta la pietas, l’irriducibile fedeltà alla gens, intesa non hegelianamente come l’elemento fondante della società civile e dello stato, bensì come la intenderebbe genuinamente quel fanciullino che alberga in tutti gli uomini. Come la speranza, mai veramente doma nell’animo umano, che, da oltre quel muro funesto che segna l’inesorabile limitar di Dite, possa almeno giungerci un segno, una vibrazione, una voce.

I due bambini della poesia sono Giovanni e il fratello maggiore Luigi, morto di meningite nel 1871, poco tempo dopo aver conseguito il diploma liceale. La scena rappresentata dal poeta risale probabilmente agli anni compresi tra la morte della madre Caterina Vincenzi Alloccatelli, avvenuta per «crepacuore» – come dirà Pascoli stesso – nel 1868, e, per l’appunto, quella del fratello, col quale egli condivise la stanza del collegio Raffaele dei padri Scolopi di Urbino in cui i due avevano studiato e vissuto dal 1862. Il componimento è interamente occupato da quello che potrebbe essere stato uno dei tanti silenziosi, quasi muti, dialoghi che caratterizzavano le tormentate notti dei fanciulli. Quelle notti brulicanti di suoni sinistri e di visioni inquietanti, di incubi, riflesso della psiche inquieta di due fanciulli che avevano da poco perduto entrambi i genitori, vedendo disgregato e distrutto per sempre quel nido che era stato per loro l’unico punto fisso in un mondo sperduto nell’immensità del cosmo; il solo volto rassicurante in «questo atomo opaco del Male». Pertanto, questa rappresentazione diretta dello spavento di due fratelli che odono dei rumori provenienti dall’esterno, che ipotizzano razionalmente delle cause plausibili e che, infine, traducono questi dubbi in un’amara riflessione sulla mutata situazione familiare sembrerebbe in sé realistica e quasi autobiografica. Questa, tuttavia, è solo una parvenza di realismo, o forse un’illusione. Difatti, l’autore deforma la realtà dando sfogo a tutto il suo tormento interiore, a quel male di vivere che costituisce la coordinata dominante della condizione esistenziale moderna, con una carica espressionistica lacerante che ricorda le forme taglienti e i colori acidi di certi dipinti del pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944). Quella di Giovanni e di Luigi è l’auscultazione del mistero tipicamente decadente. Dietro le rapide pennellate impressionistiche di questo interno s’intravede la pallida trama della tela.

Peraltro, sul piano formale, il componimento si presenta come un poemetto in terzine dantesche, dunque in endecasillabi a rima incatenata, composto di due parti, ciascuna di tredici versi. Ma, dietro una veste metrica narrativamente corposa, intrinsecamente legata alla tradizione del realismo dantesco, si cela una forma evanescente, singhiozzante, rotta come un grido d’orrore. Del resto, come suggerisce acutamente Contini, quello di Pascoli con la tradizione letteraria italiana è un accordo eretico. Determinanti, da questo punto di vista, sono gli enjambements «sento / rodere» e «lamento / lungo», che rimarcano proprio i termini indicanti le percezioni uditive dei due fanciulli, rappresentate attraverso il filtro psicologico della loro tormentata soggettività. Soggettivo è anche il tratto che delinea, con la potente inarcatura «in pace / tanto», il ricordo strozzato in gola della passata, e per sempre perduta, tranquillità familiare. Un cupo singhiozzo, questo, che pervade tutta la lirica e che è sublimemente reso dalle continue reticenze; quasi un’unica, ininterrotta, reticenza che fa da tacito sottofondo al ritmo inquietantemente teso della poesia. Le parole escono come il violento sprizzare di lampi da bocche che restano tetramente cucite. In quest’atmosfera visionaria, il cui carattere onirico è ulteriormente accentuato dall’assenza di ogni riferimento al contesto del dialogo notturno riportato, che risulta ieraticamente sospeso in una dimensione bidimensionale, i due fratellini paralizzati nel tremolio del terrore si trasformano in bambole di pezza.

Significativa è l’accumulazione espressionistica di suoni sbiaditi, lontani, come «rodere», «lamento lungo», «voci piane piane piane», «tocchi», «mormorio fugace», e di colori lugubri, cinerei, definiti a partire dai due elementi antitetici del «buio» – quello della «notte oscura» – e del «lume», coerentemente a quella poetica dell’indeterminatezza fonosimbolica individuata in Pascoli sempre da Contini. All’interno della trama familiare che emerge lugubre dall’angoscioso flusso di sussulti, magnificamente reso dall’abbondanza di vocali dal timbro scuro e cupo – la /o/ e la /u/ – e dall’allitterazione di consonanti liquide – la /f/, la /r/, la /l/ e la /s/ -, che sembra anche riprodurre lo strisciare occulto di misteriose e mostruose presenze soprannaturali, s’inserisce il dualismo buio-lume. Il lume, ora spento, che un tempo entrava, caldamente rasserenante, dalla serratura allude probabilmente a quella figura paterna tanto pianta e rimpianta dal poeta, che al padre Ruggero, brutalmente ucciso nel 1867, dedicò l’intera raccolta di Myricae. Il buio è invece definito in negativo; è l’assenza del padre, la fine della famiglia, evidenziata anche dal frequente ricorso all’avverbio «ora». La morte del nido, «che pigola sempre più piano».  D’altra parte, il bianco della tela, il fulcro interpretativo della rappresentazione, dato dalla ripetizione ossessivamente insistita di termini appartenenti o alludenti alla sfera semantica della famiglia e della memoria, si accompagna e si alterna a pesanti tocchi di nero, dati, al contrario, dall’uso artificioso della parola «paura» e da quello esageratamente sovrabbondante dell’avverbio «forse». Il bianco e il nero, l’essenza e l’assenza.

Proprio nell’assenza del colore, nel silenzio, sta l’essenza del trepidante dialogo, la voce attesa. La voce di quella madre che, se non illuminava, per lo meno scaldava ancora il buio di una famiglia già spezzata dal lutto; quella «mamma» che, tuttavia, ora «non c’è più». E allora a Giovanni e Luigi manca profondamente la parola «perdono», così emblematica della poesia pascoliana. Quella parola che si posava gentilmente sulle rassicuranti labbra materne e che, con valore quasi apotropaico, era capace di allontanare, anche se per un breve momento, tutti i mostri che abitavano la torbida psiche del fanciullino. Quella parola che sapeva comunque di famiglia autentica. Che dava la parvenza di un senso a ciò che un senso, per Pascoli, non poteva averlo. Il perdono, insomma, era quella lampada, ora definitivamente spenta, che vegliava sul sonno della ragione ed evitava che l’umanità fosse sprofondata dall’irrazionalità nel più stigio degli incubi. Tuttavia, l’attesa di questa voce è, in fondo, un’attesa vana. Il mondo è oramai dominato dal Male, sul nido è calata la plutonia morte. Anche quella che sembrava la realtà si allontana sempre di più, infinitamente, sino a divenire essa stessa un confuso ricordo. Anche Luigi è divenuto una presenza spettrale, un’ombra tra le ombre della notte. Egli vive, ora, la veglia eterna dei morti, di chi non può più dormire, condizione alla quale il poeta allude già al secondo verso.

Eppure, Giovanni spera. Spera che il volto del fratello non venga sbiadito dal tempo, disertore della vita. Spera che, dal freddo regno della morte, il fratello gli parli ancora attraverso la voce del silenzio. Spera che la memoria, alla fine, vinca il dubbioso passo. È un comportamento totalmente irrazionale? Forse. Ma, laddove la ragione sonnecchia, l’uomo deve saper convivere con i suoi mostri. L’animo umano ha bisogno, se non di credere, almeno di sperare che niente sia perduto per sempre. Che l’affetto di una persona cara non se ne vada con essa, ma che resti e continui a vivere; e che, magari, un giorno, ci sia un ricongiungimento. L’animo umano non può e non vuole escludere il ritorno. Perché celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi.

 

E allora Pascoli continua il dialogo senza tempo col suo Luigi. Oltre l’inutile e vuota distinzione tra vivi e morti. Semplicemente da fratello a fratello. Come Catullo e il suo germano. Come Ugo Foscolo e il suo Giovanni. Come Eugenio Montale e la sua Mosca. Come Giorgio Caproni e il suo Piero. Atque in perpetuum, frater, ave atque vale. Perché ogni vero addio è sempre eterno. Poco importa, poi, se a ritardare questo saluto all’infinito, sino almeno al vero ricongiungimento, siano svariate genti straniere, o una patria ostile, o un inverno candido di molta neve. Oppure la prova di un fischio. A volte realtà sogno immaginazione si fondono nell’occhio interiore. D’altronde, forse tutti siamo già morti senza saperlo. Ma, tra tante incertezze, quel che resta certo è che nessun uomo che abbia amato davvero sarà mai solo; anche la solitudine ha la sua beatitudine, fatta di silenzi, di volti, di suoni. Di ricordi.

«Verrai a visitarmi in sogno ed io sarò felice» scrisse Euripide. La memoria continua a vedere i suoi narcisi. E a danzare con loro.

Diego Cecati, VB 2019/2020