ippogrifo

Il cuore di Icaro

Nel buio sconfinato, con le mani ormai tremanti per la malattia, l’artista francese Matisse inserisce un Icaro senza ali o un sole che lo guidi, immenso in un cielo stellato terribilmente vasto. A parte la flebile luce di quelle stelle morenti, c’è un dettaglio che attira l’occhio dell’osservatore: un cuore rosso, così brillante che sembra quasi pulsare.

Non è altro che l’inarrestabile energia del desiderio, che permette ad Icaro di volare anche senza le sue ali di cera. Eppure, l’artista nel realizzare il suo “cut-out” (o “ritaglio”) potrebbe decidere di giocare uno scherzo crudele a quel povero giovane che, inconsapevole, danza tra le stelle: potrebbe decidere, forse ghignando, di strappargli il cuore. E Icaro, che ormai si è spinto troppo in alto, cadrebbe giù, tendendo la mano verso quel cielo che non raggiungerà mai più.
Tuttavia, potrebbe accadere che, di nuovo a terra, sopravviva alla caduta, perché così ha deciso Matisse, che è il suo Dio e creatore. E, allora, cosa potrà mai fare Icaro, senza il suo cuore? Lui era nato per quello, per aspirare al cielo. Ora è libero di vagare ramingo sulla terra, sfuggito a un destino crudele: il suo Dio gli ha donato la libertà.
Ma che se ne potrà mai fare della libertà senza un cuore che arda di desiderio?
È proprio questo il tema presentato dallo psicanalista e saggista Massimo Recalcati, che nel 2016 evidenzia il paradosso che attanaglia i suoi giovani pazienti: un eccesso di libertà sembra inibire il naturale processo che porta a crearsi il proprio sogno, progetto, passione, provocando un’apatia verso la vita che non dovrebbe interessare un adolescente ancora così… vivo. Eppure, pur essendo un problema attuale, non si può certo dire che questo generale senso di smarrimento sia un sintomo figlio del nuovo millennio. Sì potrebbe dire che l’inizio del capitombolo dell’umanità coincida con una spintarella di tre semplici parole: “Dio è morto”, sottolineando però che non si intende letteralmente la morte di Dio, bensì una metafora per indicare il crollo di ogni certezza. Interessante a tal proposito è la canzone del rapper romano contemporaneo Rancore, intitolata “Federico” e dedicata proprio al filosofo della celebre frase, Nietzsche. Nella canzone si parla di un ritorno come zombie di vari filosofi, tra cui Wittgenstein e Schopenhauer, ma il più importante e protagonista è Nietzsche che compare soprattutto nel ritornello: “Sapevi che Dio è morto? O almeno così dice Nietzsche” e poi “Sapevi che Nietzsche è risorto? O almeno così dico io”, proprio a indicare come tuttora la sua filosofia sia pericolosamente valida. Sulla base delle teorie del filosofo, inoltre, si sviluppa buona parte dell’attività letteraria novecentesca, ispirata al crollo di queste certezze che viene descritto egregiamente da Pirandello nel suo romanzo “Il fu Mattia Pascal” tramite la cosiddetta “Filosofia del lanternino”. Se prima gli uomini erano guidati dalla luce di grandi lanterne (ovvero dei capisaldi), ora queste si sono sempre più affievolite, fino a spegnersi del tutto. Per questo motivo ogni uomo è destinato a vagare brancolando nel buio, scontrandosi con gli altri, ognuno con la propria debole e insignificante “lanterna” che non permette di vedere a un palmo dal naso. Però, magari, succede che qualche lanterna brilla più delle altre, forse alimentata da una folle sicurezza o da mera ingenuità. E così alcuni vengono attirati come zanzare, parassiti che hanno bisogno di altri per dare un minimo senso alla propria oscura esistenza. È un altro dei problemi dei giovani che, proprio come il bambino protagonista del romanzo “Demian” di Herman Hesse, finiscono col cadere vittima di una sbagliata influenza che li porta sulla cattiva strada. Non c’è da biasimarli, però. È un istinto naturale di sopravvivenza quello di fare affidamento sul più forte, cosa che permette di vivere senza impegno, in balia della corrente, nonostante ognuno possa imparare ad alimentare con orgoglio la propria lanterna. Si tratta però di un percorso assai tortuoso e, come ci dice Svevo attraverso il personaggio di Zeno, “è conveniente credersi grande di una grandezza latente”. Così come ogni occasione è buona per accendersi “un’ultima sigaretta”, rimandare ogni responsabilità affogando nella droga o nell’alcol, quando la testa pesante come un macigno ti fa sprofondare in un vuoto lontano da ogni “se” e ogni “ma”, ogni “come”, “perché”, “quando” e altri mille altri punti interrogativi che sorgono tuti dall’incapacità di trovare un proprio posto nel mondo.
Così come scriveva Pavese né “La luna e i falò”, abbiamo tutti bisogno di sentirci appartenenti a qualcosa. Non è un caso che i giovani trovino conforto nel riunirsi in quelli che il sociologo Marc Augé chiama “Non luoghi”, che si distinguono dai “luoghi” perché privi di storia e identità cui l’individuo fa riferimento per la sua costruzione identitaria. I primi sono sparsi in tutto il mondo, fantasmi di un’idea originaria e poi clonata: centri commerciali, catene come il McDonald’s, stazioni ecc… Sono ambienti che sembrano sospesi nel tempo e nello spazio, sempre uguali e mai irripetibili, senza una caratteristica che possa distinguerli l’uno dall’altro, proprio come i giovani, che così trovano il loro spazio in uno che vero e proprio “spazio” non è. Questo perché definire la propria vita fa paura. Osservi quello “strappo nel cielo di carta” e capisci che c’è molto di più al di là del mondo terreno ricoperto da un “velo di Maya”. E allora ti chiedi, burattino sospeso a dei fili che arrivano chissà da dove, come farai a mettere in scena uno spettacolino che non sai quando finirà, attendendo lo spegnersi di quelle luci beffarde che non aspetteranno un tuo dignitoso inchino.
È sulla base di queste considerazioni che condivido appieno quanto espresso da Recalcati, consapevole che io stessa fatico a trovare un mio posto e rimango intrappolata nella sensazione costante di “desiderio di desiderare” e non nel senso romantico che intendeva Mittner, ma nel puro significato denotativo dell’espressione. Così a volte rifletto tra me e me su quel “non so che voglio, non so quello che desidero, non so che senso dare alla mia esistenza”, chiedendomi se l’oggetto dei miei dubbi non finirà per farmi impazzire come l’uomo ossessionato da una semplice monetina nell”‘Aleph” di Borges. Forse il senso stesso della vita è che un senso non ce l’ha, e non per colpa del povero Copernico citato da Pirandello. O forse è semplicemente una scusa che il cervello decide di fabbricare per evitare di dare di matto dove la ragione non può arrivare. È in questo caso che interverrebbe il sociologo Berger affermando che “la ragione è la scala di Dio sulla terra” ma, personalmente, continuo a tormentarmi con i miei dubbi terreni, e non mi lamento. In fondo, che razza di vita sarebbe una vita senza fermarsi a riflettere? Forse e, molto probabilmente – anzi, quasi sicuramente -, la maggior parte dei giovani soffre per questo disorientamento nella vita, proprio come Icaro privato del suo cuore.
Eppure, come Pascoli nel “Fanciullino” e Vitangelo Moscarda in “Uno, nessuno e centomila”, io proseguo per quella strada che sarà la mia vita, pur non sapendo dove mi condurrà. Nel frattempo, mi fermo a osservare qualche sassolino e ognuno di essi mi racconterà una storia. E saranno quelle storie a riempire lettera dopo lettera il mio petto vacuo, fino a che sarò finalmente in grado di creare da me le mie parole e avrò anche io una vita, magari anche senza senso, ma che sarò orgogliosa di raccontare.

Rachele Cesarini, V I LES 2022/2023