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Il Latte dei Sogni: impressioni sulla 56esima Biennale d’Arte di Venezia

Qual è l’elemento della vita? Fin dall’antichità gli uomini hanno cercato di rispondere a questa domanda, a partire dalla scuola di Mileto, con Talete che teorizzò che l’arché, ovvero l’origine di tutte le cose, fosse l’acqua poiché, in breve, dove c’è acqua, c’è vita. La teoria fu poi perfezionata dall’allievo Anassimene, che sostenne che l’elemento fondamentale fosse l’aria. Riflettendoci, però, il fluido della vita potrebbe essere il latte.

Sì, il latte, perché, anche secondo il mito greco, dal latte che Ercole stava bevendo ha origine niente meno che la nostra stessa galassia, la Via Lattea; perché, più concretamente, è il primo alimento di cui ogni neonato sente il sapore, creando così un legame indissolubile con la madre, la donna che l’ha messo al mondo; il latte infatti è strettamente collegato alla figura femminile, anche solo pensando a un fatto scientifico come, appunto, la nascita di una nuova vita.

‘’Il Latte dei Sogni’’ è anche il titolo della 56esima edizione della Biennale d’Arte di Venezia, che si ispira all’omonimo libro di favole scritto da Leonora Carrington, i cui disegni sono esposti all’interno del padiglione centrale dei Giardini. La Biennale 2022 è, per le più di duecento artiste donne che hanno esposto le loro opere nei padiglioni nazionali e nelle esposizioni ai Giardini, all’Arsenale e nei i palazzi di tutta Venezia, un vero e proprio figlio: un figlio con più di duecento madri, per rappresentare anche una ri-nascita per l’arte, perché quella del 2022 è la prima edizione della Biennale post pandemia. Come dichiarato anche dalla curatrice, Cecilia Alemani, “la preponderanza di presenza femminile ridimensiona la centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuale”, puntando i riflettori sulle artiste donne e di genere non-binario, presenti appunto in netta maggioranza rispetto ai colleghi.

Quella di quest’anno è in assoluto l’edizione più interessante e che mi ha colpito di più tra le cinque che dal 2013 ho avuto la fortuna di visitare, soprattutto per la particolarità e l’originalità della maggior parte delle opere esposte, a mio parere di molto superiore a quella delle scorse Biennali. Ho cercato quindi di selezionare le cinque opere che più mi hanno colpito, in ordine sparso, dell’esposizione (anche se ho dovuto lasciarne fuori alcune).

1) Padiglione degli Stati Uniti d’America, “Sovereignty” – Simone Leigh

Non si poteva certo non iniziare con l’artista vincitrice del premio per la migliore opera della Biennale 2022. Per l’occasione, il padiglione nazionale degli USA lascia carta bianca alla prima artista di colore a rappresentarlo. Simone Leigh, artista e scultrice di radici africane, evidenzia fortemente le sue origini, innanzitutto camuffando l’edificio del padiglione americano, solitamente in stile simile a quello della Casa Bianca, in una vera e propria capanna di un villaggio rurale africano, con tanto di paglia sul tetto e pilastri di legno, e l’effetto visivo del nuovo aspetto del padiglione è notevole. All’interno, Leigh espone diverse sculture di grandi dimensioni, realizzate in ceramica o bronzo, che raffigurano donne stilizzate, quasi rupestri, ma con elementi che le particolareggiano, riflettendo sull’emarginazione delle donne afroamericane nella storia.

2)  Serie “Senhora das Plantas’’ – Rosana Paulino

L’artista brasiliana di San Paolo espone all’Arsenale di Venezia una delle sue serie di disegni raffiguranti corpi femminili con sembianze di piante e alberi. Queste donne fitomorfe, che assomigliano quasi a divinità della terra e della fertilità, come le Veneri preistoriche, sembrano far nascere radici, foglie e fiori da ogni parte del loro corpo, richiamando il tema della fecondità femminile, filo conduttore della Biennale. L’opera è anche un’analisi del colonialismo europeo ai danni del Sudamerica, sottolineata dalle espressioni malinconiche sui volti delle donne e dal segno tremolante tracciato dagli acquarelli di Paulino.

3) Padiglione della Polonia, “Re-enchanting the World” – Malgorzata Mirga-Tas

Il padiglione polacco ospita una sola installazione: le pareti dell’edificio sono ricoperte interamente da tessuti di diverso materiale e colore che, cuciti tra loro, raffigurano diverse scene della migrazione di una comunità Rom. L’artista, proveniente lei stessa da una di queste comunità, vuole far conoscere aspetti della cultura e della vita Rom che, pur essendo la più grande minoranza d’Europa, è spesso sconosciuta. A completare i dodici pannelli che fanno da pareti al padiglione, ci sono simboli astrologici, cicli del tempo e segni zodiacali, ripresi dalle decorazioni di Palazzo Schifanoia a Ferrara.

4) “Emerging in difference” – Felipe Baeza

La cosa che più colpisce delle opere di Baeza, artista di origini messicane, è la varietà di colori brillanti e, soprattutto, di materiali con cui le ha realizzate: collage di acrilico, inchiostro, spago, tempera e ritagli sono assemblati per comporre corpi umani con forme anatomiche insieme a piante che invadono i dipinti. In particolare, tra i sette quadri di Baeza esposti all’Arsenale, quello che più mi è rimasto più in mente è “Emerging in difference”, dove un uomo con radici di pianta sembra essere guardiano e difensore dell’ultima rosa di un pianeta in un paesaggio quasi lunare, immagine che ricorda molto una sorta di Piccolo Principe di Saint-Exupéry e che sembra profetizzare un futuro distopico per la Terra.

5) Padiglione della Danimarca, “We Walked the Earth” – Uffe Isolotto

A proposito di distopia e fantascienza, l’installazione di Uffe Isolotto realizzata per la Danimarca è a dir poco da pelle d’oca. Varcando la soglia del padiglione, si entra nell’ambiente di un casale di famiglia danese; appena però ci si accorge della figura metà equina e metà umana della ragazza distesa a terra, si è pervasi da un senso di freddezza e inquietudine: gli occhi freddi e rossi sangue della donna, morti per un male indistinguibile e inestinguibile, ma allo stesso tempo vivi per quanto sono umani, calamitano lo sguardo e la mente degli spettatori. Altrettanto da brividi è la figura del secondo Chirone, nel quale il distacco tra vita e morte è ancora più netto e tragico. Cosa è accaduto alla famiglia di ibridi e, soprattutto, al mondo in cui vivono? Il loro pianeta è davvero così distopico e lontano dal nostro, oppure è molto più vicino e realistico di quanto si può credere?

Dopo che si è usciti dal padiglione rimane addosso un senso di incertezza, per il presente e per il futuro, che, se non fa persino empatizzare con i gesti estremi dei due centauri, quantomeno fa continuare a riflettere e porsi domande sul nostro mondo, che, in fondo, è ciò che un’opera d’arte ha il compito di fare.

Alessandro Vignetti