ippogrifo

Intervista sulla DAD alla prof.ssa Patricia Zampini

Nella sua personale esperienza, possono le conoscenze e la passione di un professore passare attraverso un monitor? Quali sono stati i momenti in cui ha percepito maggiormente la vicinanza dei suoi studenti?

Si può far passare la conoscenza e perfino la passione attraverso un monitor, ma non è assolutamente la stessa cosa: la presenza reale conta nell’insegnamento quasi come nell’amore, perché ho sempre pensato, al di là della retorica, che insegnare sia in effetti un atto d’amore. Insieme a ciò che sappiamo, trasmettiamo ciò che siamo, come ci rapportiamo agli altri, di cosa ridiamo, cosa ci fa arrabbiare, cosa ci stimola intellettualmente, cosa ci stanca, la nostra voglia di ricercare, di lavorare insieme, di stare soli. E tutto questo è inscindibile dalla trasmissione delle conoscenze, perché è la via attraverso cui le conoscenze diventano vive e capaci di parlare ai ragazzi.

Così un professore non resta solo un tecnico che riferisce dei contenuti o parla di problemi, ma diventa un maestro, un modello (essere un modello positivo, poi, dipende da noi!) per gli studenti, che dal nostro essere persone e non solo professionisti si rapportano a ciò che noi siamo e scelgono non solo cosa, ma come vorranno essere loro. Tutto questo avviene non solo attraverso parole riprodotte da un microfono o un’immagine parziale ritagliata da uno schermo, ma attraverso il linguaggio del corpo, il modo di muoversi e di essere nello spazio, le espressioni del viso, il tono della voce percepita fluidamente e non dipendente dalle cadute della connessione. Nei due sensi, ovviamente, perché insegnare vuol dire anche poter ascoltare la risposta che ti viene dagli alunni, tenerne conto, altrimenti è solo un parlare da soli al nulla. È durissima insegnare così, soprattutto poi nelle classi divise a metà, in cui devi fare un lavoro doppio per far partecipare anche gli alunni a  casa, essere tu il tramite che tiene unita la classe, per quanto possibile, sia ripetendo le risposte dei ragazzi in aula a beneficio di quelli a casa, sia usando un tono di voce atto a farti sentire bene da tutti, sia dando spazio alle parole degli studenti, che in parte ti stanno davanti, in parte ti vedono di profilo dallo schermo. Spesso io giro perfino il banco col computer verso i ragazzi presenti, in modo che la telecamera inquadri loro, perché mi sembra più importante, in questi momenti difficili, che i ragazzi si sentano uniti, si sentano ancora classe, vedano i loro compagni piuttosto che vedere me.

Ho percepito in particolar modo la vicinanza degli studenti l’anno scorso, all’inizio dell’emergenza, quando eravamo tutti rinchiusi a casa e terrorizzati dai telegiornali, di fronte a un nemico oscuro che sembrava nessuno sapesse come affrontare. La difficoltà della situazione ci ha fatto sentire uniti, e i ragazzi, così giovani, hanno capito perfettamente la gravità del momento: hanno dimostrato tutti una maturità straordinaria, una disponibilità, un’attenzione, una volontà di esserci e di testimoniare la loro partecipazione che non esito a definire commoventi. Stare chiusi in casa come topi è difficile per tutti, ma è perfino contro natura per i giovani, che hanno diritto a vivere la loro età nella gioia di stare con gli altri, di muoversi nel mondo. Eppure lo hanno fatto tutti, senza protestare, in silenzio e con affetto. Quando una classe prima di ventotto studenti si connette al completo alle otto del sabato mattina per seguire una lezione di grammatica greca, quando una classe quinta sopporta pazientemente, continuando a seguire e a lavorare, l’incertezza totale e le voci che si rincorrono incontrollate su come dovrà affrontare la maturità di lì a due mesi, quando tutti i ragazzi manifestano in modo così forte e vivo il loro sentirsi parte della comunità, ecco, io credo che questa sia una grandissima lezione di umanità, prima di tutto per noi. Naturalmente, quando poi l’emergenza diventa uno stato di necessità cronico, le cose cambiano molto, e io spero vivamente che questo finisca al più presto, perché siamo davvero sfiniti, noi e loro.

Se le è capitato, ci racconti un episodio divertente avvenuto in DAD, qualche figuraccia fatta dagli studenti.

Figuracce fatte dagli studenti non ne ricordo, perché loro sono bellissimi anche col pigiamone e gli occhioni gonfi di quando ti sei appena svegliato (anche se è cosa che io scoraggio decisamente, invitandoli sempre a vestirsi e a combattere l’abbrutimento domiciliare). Io, piuttosto, ho dovuto affrontare ripetute e complesse sessioni di restauro e di maquillage mattutino per non spaventarli in primo piano davanti alla telecamera, e ho accuratamente tenuto nascosta la copertona che tenevo sulle gambe durante le cinque ore di staticità forzata, così come la tazzina di caffè di conforto che sorbivo ogni tanto. Poi la cosa divertente è stata, durante il primo lockdown del marzo-giugno scorso, che mio marito, che stava a casa a lavorare al suo computer, sentiva tutte le cose che dicevo e alla fine si è fatto una cultura notevole sui Greci e sui Romani: ogni tanto a tavola cita questo o quell’episodio di storia antica come se fosse stato presente ai fatti, o mi ritorce contro una citazione che mi ha sentito fare.

Secondo lei la modalità utilizzata lo scorso anno per l’esame di Stato ha preservato la possibilità di mostrare le conoscenze acquisite in cinque anni di liceo oppure ha penalizzato gli studenti? Cosa si aspettava dagli esami di quest’anno?

Penalizzare gli studenti direi proprio di no, anzi, li ha favoriti perché ha eliminato lo scoglio dei due scritti, entrambi molto impegnativi e tra l’altro appena introdotti in una modalità nuova con la riforma degli esami che era stata fatta l’anno prima dell’epidemia. E anche nell’orale, con l’elaborato che in teoria doveva sostituire la seconda prova, alla fine l’esame nelle materie d’indirizzo si è risolto in un colloquio su un tema concordato in precedenza, il che tra l’altro mi vede ben poco d’accordo. Tuttavia era inevitabile, perché certe cose vanno preparate, e fare delle prove scritte come quelle attualmente richieste dall’esame di Stato ordinario non si può, se si esce da una situazione didatticamente disastrosa come quella imposta dalla “dad” (oggi ribattezzata DDI, acronimi elaborati a posteriori per dare veste istituzionale a un lavoro immenso e nuovo che, applicato per la prima volta in misura così massiccia e pervasiva, ci siamo inventati noi, sul campo, con l’emergenza: lo abbiamo fatto sperimentando e imparando a usare piattaforme e moduli per non far finire un anno scolastico drammaticamente nel nulla, ma resta comunque una toppa, un tentativo di rimediare lodevole, interessante e con multi spunti utilissimi per il futuro, non certo la soluzione del problema, né tanto meno la panacea come vorrebbero gli autori di alcuni commenti che lo letto sui giornali). Dagli esami di quest’anno, dato che quest’anno è stato ben peggiore del precedente, scolasticamente parlando (in fondo nel 2019/’20 siamo stati chiusi in casa solo da marzo a giugno, non a singhiozzo e con frequenze organizzate in modi sempre diversi fin da settembre come nel 2020/’21), mi aspettavo che fosse come quello dell’anno scorso, e per fortuna è stato così: non è certo l’optimum ma era l’unica cosa da fare, purtroppo. Se poi vogliamo parlare della realtà ideale e dire se un esame fatto in questo modo consenta veramente di esprimere le conoscenze e la maturità culturale acquisita in cinque anni di liceo, non posso non avere delle perplessità.

Le gite di istruzione sono state annullate improvvisamente. In che modo pensa che ciò sia stato una perdita nel percorso formativo degli studenti?

Credo che sia stata una grossa perdita. Anche se non sono una fan delle gite a tutti i costi e delle interruzioni dell’attività didattica per i motivi più vari, credo che i percorsi culturali programmati dal consiglio di classe all’inizio dell’anno, e in particolare quelli che programmiamo qui, siano veramente formativi, e che perderli sia stato un vero peccato e una rinuncia triste per gli alunni. Dovevamo andare a Pompei ed Ercolano, dovevamo assistere agli spettacoli tragici a Siracusa, visitare musei e vedere coi nostri occhi opere che avevamo studiato. Una perdita davvero grande, se si pensa che il viaggio d’istruzione è l’unico modo, per molti (non tanto per motivi economici, quanto forse per opportunità educative offerte e abitudini nell’organizzare il tempo libero) per entrare in contatto con queste cose. Anzi, mi sentirei di esortare gli studenti a visitare questi posti anche da soli, appena potranno, perché sono esperienze importanti che non devono negarsi.

Come è stato insegnare alle nuove classi la grammatica latina/greca e la traduzione? Che metodi ha utilizzato per fronteggiare il problema? Che riscontro ha avuto da parte dei ragazzi?

È stato difficilissimo, e certamente l’aspetto che è stato più penalizzato è stata la traduzione dal greco e dal latino, soprattutto per l’impossibilità di svolgere compiti in classe attendibili a distanza e quindi la necessità di ideare prove alternative. A volte ho fatto verifiche on line sulla grammatica di testi assegnati previamente a casa, e ha funzionato abbastanza bene. Sono situazioni d’emergenza, però. Temporanee e spero presto archiviabili, non la nuova norma, di certo. Siamo impazziti nel tentativo di trovare sostituti di qualche genere, ma da un lato non è facile e dall’altro rischiamo di caricare gli studenti anche più del normale, nella nostra ansia di effettuare verifiche credibili e senza possibilità di contraffazione (cosa praticamente impossibile, senza la presenza e il controllo in classe). Così si ottiene solo il risultato che chi studia sempre con serietà vede raddoppiato il suo lavoro, e chi ha sempre studiato poco continua a studiare poco, con l’opportunità di usare anche nuovi “trucchi” grazie alla comunicazione virtuale. Io credo che, a parte arginare la poltroneria a oltranza, le vere e proprie prese in giro, quelle sfacciate che ti fanno veramente arrabbiare per la mancanza di correttezza – e ce ne sono -, dobbiamo per il resto cercare di essere sereni e collaborare con gli studenti, facendo appello alla loro voglia di imparare e di non perdere anni preziosi di vero apprendimento, perché gli studenti seri sono la maggioranza, e i nodi verranno comunque al pettine, quindi l’imbroglio alla fine non paga e conviene poco, la maggior parte di loro lo sa. Forse, mi rendo conto, parlo da una posizione privilegiata, perché gli studenti che frequentano la nostra scuola per lo più sono volenterosi e seri. Ed è vero, comunque che, anche da noi, con questa situazione ti perdi i soggetti più fragili e meno entusiasti. Ma dobbiamo fare del nostro meglio in senso più costruttivo che repressivo, credo, perché alla fine è l’unico modo efficace per affrontare una situazione del genere, assolutamente pessima, sia chiaro, sul piano del fare una scuola seria. Non dimentichiamo poi la sospensione di tutti i certamina, che ha avuto il suo influsso negativo, per chi vi partecipava abitualmente come noi.

Per quanto riguarda non la verifica ma il tradurre ordinario, invece, come lavoro assegnato apparentemente le cose non sono molto cambiate: si esaminano sempre testi, si danno da analizzare versioni a casa, si correggono insieme, e i ragazzi rispondono normalmente… insomma, volendo, si potrebbe anche dire che è uguale. Ma in realtà non lo è, perché anche in questo caso la presenza effettiva del docente in classe, con le dinamiche che in questo caso si attivano, è ciò che fa la differenza. Anzi, direi che, per i professori delle mie materie, “recuperare” le competenze di traduzione dei testi classici dovrebbe essere la priorità, dal punto di vista didattico, di quando torneremo in classe normalmente.

Intervista a cura della IV B a.s. 2020-2021