ippogrifo

“La bambina che vuole essere Dio”

 

Sylvia Plath (1932-1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense. Famosa per aver sviluppato il genere della poesia confessionale, si servì della letteratura per versificare le pieghe di una personalità fragile e sagace. Soffrì, infatti, di una grave forma di depressione, che fortunatamente non compromise la sua carriera lavorativa. Per un breve periodo, insegnò allo Smith College e frequentò innumerevoli corsi di scrittura. I suoi più voraci versi sono racchiusi nella raccolta di poesie “Ariel”, pubblicata postuma dal marito Ted Hughes. I “Diari “ e “La campana di vetro”, romanzo pubblicato con lo pseudonimo di Victoria Lucas, sono le principali opere in prosa della scrittrice. Lacerata da un dolore indefinito, morì suicida all’età di 30 anni.

Di tutti questi corpi. Questi corpi. “Io sono. Io sono. Io sono”.

I versi sono vicoli ciechi, cartapesta.

Gli uomini sono vicoli ciechi, schiene chine.

Lei è un vicolo cieco, frammento indefinito dell’io.

È una sagoma piatta, informe, diafana. “Io sono. Io sono. Io sono” ripete. Con furia, cerca un’ assoluzione nella parola e fruga crudele nelle viscere vuote. Solca. Sciupa. Scava. È niente! Eppure esiste.“Sylvia salva, comprometti, evadi!” scrive. Ha una penna e la sua inquietudine. Le dita si muovono eretiche, urgenti, quasi anarchiche, seppur sottomesse all’irreversibile tic tac dell’orologio. Sono rimbombi insopprimibili. Senza pietà, sente il tempo consumarsi e lacerare i suoi stessi versi. Lui la derideva e lei lo scherniva con l’arte. Doveva affermare quel deforme groviglio interiore. È una necessità che si vivificava solo nell’atto di marchiare con i versi e colpire con la prosa. Doveva scrivere e affrancarsi, prima di cedere al turbine della depressione, che sentiva già tarmare ogni fragile segmento del suo corpo. Larve inquiete si annidano nel ventre di una poesia. Anodini pensieri diventano parole penetranti, perforanti. Disfaceva e tramutava in versi. Gineprai di un corpo che trasuda passione. “La mia faccia non la conosco, non è la mia”. Sentiva il peso di una maschera di gesso, un reticolo di catrame dissipare la sua essenza. Una barriera di carne si inspessiva, l’affondava. Insopportabile tensione. Doveva scrivere anche di quello, doveva imprimere il fango, il catrame, le maschere, l’aporia e l’inesistenza. Essere vera, almeno in poesia. Eppure, mentre scriveva, quella maschera di gesso la rompeva in mille pezzi e il suo volto era vivo, lucido, vero. Prendere parole e morderle coi denti, aprirle con le mani, allargarsi e spingere. Pretendere uno spazio, maltrattando la sintassi. Farsi largo, ricordandosi di non scivolare. Se solo le parole non avessero spigoli! Ballano tutti, nel frattempo. Masse di corpi  si muovono coese, logiche e indefesse e si scrutano con fare indagatorio. Oscillano in equilibrio, in perfetta simbiosi con l’ombelico del mondo. Lei è l’unica fuori tempo. Il suo è un movimento che deborda da ogni imposizione convenzionale, è impudico e privo di armonia. Il mondo che varca non ha un centro di gravità.  Quella danza uniforme di pesi anonimi si fermava e quelle ombre iniziavano ad impallidire. Lei era una guerra aperta, la poesia il campo di battaglia, non l’arma vincente. In essa si accorpavano gli esiti del conflitto, che si ricreava repentinamente e mortalmente le consumava ogni forza. Una guerra senza vinti né vincenti, senza premi o bottini, senza gloria né vergogna. “Sylvia” e l’”io” si arrovellavano imperterriti, senza che uno prevalesse sull’altro. Senza fine erano gli urti dentro di lei. Vegetava in una sorta di paralisi, che vedeva nell’irrisoluzione di questa profonda collisione la sua causa più profonda. La scrittrice imponeva sull’io il diritto di vivere, di progredire mentre l’io, poi suicida, piano piano sgretolava ogni parte della donna che con coscienza e autodeterminazione diceva: “Io sono qualcosa”. Quella tensione naturale o predisposizione all’instabilità le impedì di trovare pace. La sta ancora cercando. La sua poesia è un grumo di carne e bisogno. Bisogno di appartenere. Di redimersi. Di essere.                   

Maledetto è il corpo che la abita! Esiste e non lo sa scrivere. Non lo sa scrivere.

Graziella Accetta