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La scuola ai tempi del Covid: L’illusione di uno schermo

«Noi ci eravamo già abbastanza allontanati dalla socializzazione con l’informatica, diciamolo chiaramente. Non avevamo bisogno del Covid, per creare un’altra forma di distanziamento. Perché da tempo molti giovani parlano attraverso il computer, molta gente lavora avendo davanti a sé non il prossimo, ma uno schermo. L’informatica ha già creato un distanziamento sociale, una comunicazione che non è guardarsi in faccia, uno di fronte all’altro. La relazione si è già diluita nella configurazione informatica che non è più un io e te, ma io e la tua rappresentazione nello schermo che sta davanti a me.»

Estratto dall’intervista di Walter Veltroni a Umberto Galimberti (dal Corriere della Sera del 17/11/2020)

Una triste realtà quella descritta da Galimberti, delle parole amare difficili da inghiottire, che ti si ritorcono nello stomaco…  e una condizione talmente paradossale da risultare quasi incomprensibile. Io stessa, mi fosse capitato di leggerle pochi mesi fa, mi sarei limitata a sorridere alle farneticazioni di uno dei tanti adulti che criticano la tecnologia, che sia per motivi validi o tanto per il gusto di farlo. Eppure, dopo aver vissuto quasi un anno alla mercé del covid, ho capito che la socializzazione, quella vera e pura, oramai era morta da un pezzo e che eravamo già stati allontanati proprio da ciò che avevamo costruito per azzerare la distanza: i prodotti informatici. È piuttosto ironico, non trovate? Proprio come un pesce che si accorge del suo bisogno di acqua solo quando ne viene tirato fuori con la forza, anche noi ci siamo resi conto solo ora dell’indissolubile necessità che abbiamo nei confronti dell’altro, per quanto possiamo tentare di negarlo. Aristotele affermava che l’uomo è un animale sociale, ha bisogno di vivere in una società per il suo sostentamento, ma… Attenzione. Vivere, non sopravvivere. Infatti, potremmo dire che ciò che il covid ci ha strappato di più caro, oltre al trono di certezze sul quale sedevamo in quanto uomini, è la vita stessa. Quella fiamma alimentata dalle nostre scelte, da un esito inaspettato, dal desiderio e l’attesa del domani, che oramai viene scandito da un orologio dai ticchettii tutti uguali, giorno dopo giorno dopo giorno. In una successione ripetitiva di immagini, suoni e sensazioni, ciò che più bramiamo è l’imprevidibilità e l’emozione della vita che scattano solo quando più vite si intrecciano, come dei gomitoli lasciati rotolare a terra, a formare delle composizioni sempre differenti. L’irrefrenabile bisogno degli altri che in alcun modo può essere soddisfatto, è ciò che ci ha portato a vedere nella tecnologia l’unico sostentamento in grado di alleviare questo incessante senso di vuoto che ci opprime. Eppure, è stata proprio quella ad allontanarci sempre di più, convincendoci del contrario. Ma solo ora che è troppo tardi comprendo come non fosse altro che una mera illusione: l’immagine sullo schermo e i suoi milioni o non so quanti pixel non rappresentano altro che una figura lontana. E spero che, ora che il calore umano è diventata cosa più preziosa di qualsiasi gioiello, vi renderete conto che uno schermo non sarà mai in grado di  sostituire la sicurezza di un abbraccio, l’odore di un profumo conosciuto, la sensazione umidiccia dopo una stretta di mano… Perché quello di cui il covid ci ha privato è ciò che  più c’è di scontato e che pure ignoravamo, ovvero che in questa opprimente realtà esisto io come esisti tu e abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter vivere, perché a sopravvivere ci riusciamo anche da soli, ma nulla è più deleterio di un vuoto lasciato da un’altra anima.

Rachele Cesarini, III I