ippogrifo

Ulisse, la rivoluzione dell’eroe

Nell’Odissea emerge con forza, non solo attraverso la figura di Ulisse, ma anche in numerose altre,  come ad esempio quelle dei compagni nel nostos, o del ciclope Polifemo, il profondo divario e la non avvenuta pacificazione tra due grandi personalità archetipiche presenti nella psiche maschile: l’una più profondamente “maschile” soprattutto in senso biologico, di più diretta derivazione preistorica, che spingeva il maschio a combattere e ad unirsi a quell’orda rissosa che costituiva alla fine tutta la sua socialità e anche l’unico ambiente in cui egli poteva essere considerato portatore di un’identità ad ogni modo ancora “collettiva” (in quanto riferita a tutto il gruppo costituito da giovani continuamente gareggianti fra loro anche, e in origine soprattutto, per ottenere il predominio in campo sessuale, ossia la possibilità di accoppiarsi con una femmina, che solo uno di loro avrebbe potuto raggiungere); e la seconda grande identità psicologica che è, per contro, spiccatamente culturale, vale a dire quella paterna, che ha come scopo ultimo la conservazione del nucleo familiare di matrice patriarcale tipico della Grecia del periodo arcaico, oltre alla connessa e conseguente trasmissione di valori e modelli.

Il ruolo paterno era del tutto estraneo alla “mentalità” preistorica, e lo stesso sesso maschile, escluso il caso in cui i suoi componenti fossero inseriti in un gruppo più o meno coeso, non aveva alcuna rilevanza, identità o ruolo sociale. Da qui l’ipotesi che la figura del padre nasca proprio come tentativo di dare un’identità personale e sociale, con i doveri e diritti che ne conseguono, al sesso maschile, che, prendendo coscienza del fatto di essere anche lui implicato nella riproduzione non come semplice serbatoio genetico, cosa prima d’allora del tutto sconosciuta, e decidendo di allevare e prendersi cura della propria prole, acquista una propria dignità e un proprio spessore.

Il maschio quindi deve inserirsi in un gruppo familiare in cui si è già in due, la madre e il figlio, relazione che è forse la più profonda e forte in natura, mentre quella del padre con il figlio necessita di un periodo di studio e conoscenza reciproca per favorire l’accettazione e la condivisione di tutto ciò che con l’archetipo paterno è collegato, ossia stabilità, intenzionalità, ordine, cura. Poiché in questo modo il padre acquista la valenza societaria di iniziatore e promotore della socialità del figlio, non solo è possibile dire che la società nasce con il padre, o addirittura che il padre ci ha dato la società, ma che egli è stato “costretto” ad assumere una qualità intrinseca di forza e resistenza che gli permettesse di difendere efficacemente questo gruppo familiare mutato. Grava su di lui la “divisione dei compiti”, successiva alla nascita della sua immagine, dettata anche, probabilmente, dal cosiddetto terrore della vicinanza, vicinanza ad una donna che è indubbiamente sentita come potentissima e misteriosa soprattutto per la sua capacità di procreare.

Questo straordinario potere femminile sarà poi negato dagli stessi padri, che inaugurano così una nuova era di svalutazione, repressione ed espulsione del femminile dal sociale, che continua tuttora e si manifestava nella Grecia antica anche con fenomeni sociali quali l’omosessualità maschile o la pederastia, costituente anche un mezzo per trasmettere valori e virtù civiche, e che creava legami verticali fra generazioni e non orizzontali tra partner, proprio per la difficoltà di apprezzare, e ancor di più amare, un sesso considerato inferiore. Oltre al potere femminile del dare alla luce, si teme anche la capacità, anch’essa archetipicamente femminile, di far sviluppare e concretizzare la vita: potenza e risonanza psichica totalizzante della figura femminile che non è chiaro se abbia portato ad una effettiva venerazione del femminile in forme non di stampo superstizioso, o addirittura ad una società matriarcale originaria. Se d’altronde l’esempio fatto nel testo a dimostrazione di una possibile erroneità di fondo delle considerazioni attorno alle “Veneri” preistoriche non è certamente contestabile, pure l’esistenza di un patriarcato eterno e sempre esistito mi pare, soggettivamente, non solo assai deprimente anche per le donne, ma addirittura irrealistica: figurazioni più antiche di “figure” femminili non hanno infatti alcuna connotazione sessuale, ma la loro iconografia è invece caratterizzata da elementi, quali il crescente lunare o la conchiglia, appartenenti a culti di evidente derivazione matriarcale e connessi con la “Grande Madre” dell’universo.

E’ quindi un’”armatura” mentale e fisica a costituire, nella sua contrapposizione alla caratterizzazione affettiva e familiare, il cosiddetto “paradosso del padre”, che causerà tante problematiche ancora ben lungi dall’essere risolte, proprio per la sua duplice e quasi ossimorica valenza collegata a valori di cura e accudimento del tutto estranei alla natura virile, sia fisiologicamente che psicologicamente ed archetipicamente. Questi valori infatti, costituendo un rovesciamento dell’ordine naturale, portano l’uomo ad uno sdoppiamento, ad un’ insicurezza della sua nuova identità sociale, ulteriormente minacciata dal già citato paradosso: mentre la madre, nel percorso verso l’umanizzazione e la socializzazione, continua la natura non discostandosi dalle sue caratteristiche, dai suoi archetipi e dalle sue capacità, l’identità del padre più recentemente costruita è difficilmente armonizzabile con gli schemi concettuali della “civiltà di vergogna” di epoca arcaica, che trasforma il maschio primitivo in un guerriero impulsivo, assetato di sangue e continuamente in cerca di un pubblico acclamante che possa soddisfare il suo desiderio di gloria e renderlo, attraverso la sua partecipazione emotiva alle stragi, l’eroe degno di far parte di quella società che si basa sulla visibilità pubblica.

Ma l’unica identità reale, oramai, è quella paterna, ragione dell’esistenza di quell’oikos sotto la tutela femminile inteso come gruppo familiare possibilmente mononucleare che ha sostituito il ghenos e i suoi sanguinari rituali vendicativi. Sono le esigenze di questa identità a causare in Ulisse il desiderio, più grande di ogni altro, di tornare alla casa per riprendere i suoi doveri paterni sia di cura dello stato come “pater patriae” ante litteram, sia di trasmissione di valori a suo figlio Telemaco, finora privo proprio di quell’ordine e ideale conoscitivo ed esistenziale che solo il padre può dare in quanto figura prettamente sociale, ordine fatto di intenzione e volontà. Ma è anche il desiderio di tornare alla metaforica “Terra dei Padri” dove si può essere padre per sempre e avere dunque per sempre un proprio posto nella società.

Un desiderio tuttavia (e ciò costituisce la prima differenziazione di Ulisse dall’eroe omerico descritto nell’Iliade) non raggiungibile attraverso l’immediata soddisfazione di un impulso, ma attraverso un progetto intenzionale e sempre da perseguirsi, pena gravissime sventure quando Odisseo seguirà l’altro importantissimo vento che spira nella sua anima, il desiderio di conoscenza.

Come per l’Ulisse dantesco, questo inaudito e mortale desiderio di conoscenza può essere definito e seguito grazie alla ulteriormente rivoluzionaria caratteristica del pensare, che è pensiero concluso derivato da una inarrestabile e continua comparazione tra due o più alternative e tra ciò che sia il cuore, thymos, che la mente, phren, suggeriscono; a questo Ulisse aderirà anche e soprattutto rinunciando alle varie suggestioni del malakos, del morbido, presenti nel poema, costituite in massimo grado da tutte le figure femminili in vario modo “seduttrici”, che incantano ed adescano l’eroe vuoi con la loro bellezza, addirittura soprannaturale, vuoi con la profonda conoscenza di cui sono portatrici, conoscenza riguardo alla quale non mi sento di poter escludere l’ipotesi sostenuta da Eva Cantarella nel libro Itaca, ossia che le figure di donne ammalianti che Odisseo incontra nel suo viaggio possiedono un tipo di sapienza relativo alle arti della seduzione; d’altronde, quale potrebbe mai essere la conoscenza che il più acuto dei prototipi di padri omerici ignora, se non quella relativa alle tecniche di seduzione ed ammaliamento femminili, per loro natura, non solo estranee ma anche opposte al progetto e al destino paterno, fatto primamente di fedeltà? Fedeltà verso un ideale di trasmissione di valori all’interno di un rigido sistema familiare e verso la persona che lo rappresenta e ne giustifica l’esistenza in mancanza del padre stesso.

Ma l’ideale che si trasmette comprende anche la capacità di perseguire l’obbiettivo restando al proprio posto, non esponendosi, anche nel caso questo dovesse comportare una riduzione del proprio status, cosa che sarebbe stata certamente inaccettabile per un guerriero arcaico; e si persegue anche rifuggendo, o resistendo, alle tentazioni che si presentano lungo il percorso, tentazioni relative all’ottenimento di condizioni, prima fra tutte l’immortalità, impossibili ed irrealistiche soprattutto per il padre. Se è vero infatti che il desiderio di Odisseo di raggiungere la “Terra dei Padri” è indirettamente dettato dalla volontà di perpetrare in eterno il proprio ruolo, questo può accadere solo con la regolare, ordinata e naturale successione di un genitore all’altro; paradossalmente, quindi, raggiungendo l’immortalità direttamente, dunque solo per se stesso, e non per la sua stirpe come è stabilito che accadrà a seguito del ritorno alla patria, il padre fallisce e non ricopre più il suo ruolo. L’oblio è connotato come il più terribile nemico dell’oikos, come emerge dalla conclusione del poema.

Il confronto tra queste due personalità emerge chiaramente ad esempio nell’incontro-scontro con Polifemo. Il mostro simboleggia, ma in questo contesto secondariamente, l’inciviltà barbarica dai Greci attribuita indistintamente, in vario grado, a tutte le altre varie etnie da loro incontrate, inciviltà simboleggiata dall’ignoranza che Polifemo dimostra delle tecniche agricole e viticole e, per estensione, dei pericoli stessi connessi alla figura paterna e al suo progetto, fra i quali un ruolo di primo piano ha appunto l’ebbrezza che dà il vino; ma soprattutto, in questo contesto, Polifemo rappresenta tutta l’irrazionalità e la mancanza di ordine e progetti del maschio preistorico. Nell’episodio si passa dall’evidenziare, nella nuova identità sociale maschile, prima il ruolo paterno, del quale viene sottolineata in particolare la capacità di eclissarsi per raggiungere lo scopo, poi il guerriero omerico che non è mai eliminato come modello sociale inconscio, ma in questa fase della coscienza dell’uomo greco ancora coesiste con il nuovo archetipo.

Il modello sociale omerico nella narrazione prenderà il sopravvento allorché Ulisse, ormai sfuggito con i compagni superstiti alle grinfie del ciclope, credendosi al riparo da altri eventuali attacchi, non rinuncerà a gridare il suo nome e la sua stirpe. E questo nonostante il tentativo di dissuasione dei compagni, che qui ricoprono loro stessi il ruolo paterno di freno, vigilanza e fedeltà al fine stabilito, contro l’irruenza e la dissennatezza derivata da un desiderio totalmente egoistico di imporre la propria forza, oltre al proprio nome e conseguentemente la sicurezza rispetto agli eventi ostentata dal guerriero arcaico.

Gridare il proprio nome e la propria stirpe come fonte di omerica gloria, ma fonte anche di nuove numerose sventure, consistenti negli ostacoli e nei ritardi che da allora in poi rallenteranno la realizzazione del progetto familiare, in aggiunta a nuove tentazioni: tutto ciò costituisce la terza ragione dell’evidente carattere rivoluzionario dell’eroe nei confronti della tradizione epica precedente, vale a dire l’essere un eroe polýtlas, che molto ha sofferto per non poter tornare nell’ambiente sociale fatto a sua immagine e somiglianza e che, anche per questo, molto conosce, e può tentare di svolgere questo ruolo al meglio delle sue ormai completamente sondate capacità.

Francesco Appignanesi